diario di Gabriel

my open thoughts

Saturday, January 18, 2003

 
Alle cinque e cinquantotto quando ti metti a scrivere probabilmente lo fai perché a quel punto sei pronto per arrivare all’alba. Sei pronto a tutto, la stanchezza ti libera dalla prigonia della pigrizia. Quel 26 dicembre non ti significa nient’altro che l’inizio di uno degli ultimi giorni dell’anno, di un anno che ti sembra diverso dagli altri soltanto perché ci sei ancora dentro. Quell’anno in cui hai cominciato a capire che niente cambia se non fai qualcosa per rendere possibile anche un piccolo modesto cambiamento nella struttura intima del tuo pensiero.
A settembre di quello stesso anno ti eri reso conto che ogni tanto è possibile pensare, ma che questo succede molto più raramente di quanto tu immagini. Si, spesso si immagina di pensare ma non si pensa veramente. Devo andare a comprare tabacco, devo pagare le bollette, oddio sono in ritardo, questo non significa propriamente pensare, a meno che non si intenda il puro atto di dare voce alle proprie ansie. E le tue ansie sono come freccette che attraversano il tuo spazio interiore.

Alle sei e cinque ti rendi conto per l’ennesima volta della tangibile sensazione di solitudine che ti trapassa, la città dorme profondamente. Sei seduto in una stanza di una casa che non è tua, mentre nella casa che pensavi fosse tua ora vive una donna che ha scelto di smettere di amarti. Ogni tanto il pensiero non ti colpisce all’addome, anzi, ti senti di nuovo libero, libero dopo tre anni, libero dopo dieci anni, ma sai anche che stai cercando di convincerti a guardare il “lato buono delle cose”. Molti dei tuoi amici per sollevarti da quello stato di abbattimento che non tenti di nascondere ti dicono che “è meglio così”, e dopotutto è sempre meglio così perché non ci sono alternative.

Sei seduto senza mutande e scrivi e pensi, credi di pensare, come sarebbe bello non smettere più e snocciolare una volta per tutte l’intero corso degli eventi che sembra così ingarbugliato ed interessante. Non andare a dormire perché non capita spesso di cominciare a scrivere in questa maniera, con questa dedizione, la serie di eventi apparentemente non correlati che in quell’ esatto momento dovrebbero descivere ciò che sei. Potresti metterci giorni, e sarebbe bello non smettere fino a quando la tua figura smette di essere te, o meglio, quando tu cominci a vedere chiaramente cosa sei.

Potresti avere ucciso qualcuno, una mattina, senza che nessuno mai potesse sospettare di te. Neanche avendo lasciato indizi sparsi qua e là. Ma questi indizi sparsi ti chiamano come la terra chiamava il nome di Abele e Caino faceva finta di non sentire.
Tu non sai chi hai hai ucciso, non lo ricordi, ma hai la netta sensazione di averlo fatto. Non è stato un omicidio premeditato, probabilmente neanche volontario, ma si tratta di omicidio, devi accettarlo. E devi accettare che in una maniera o l’altra pagherai per questo.

Pagherai anche per aver mentito, molte volte, per aver detto e promesso cose che poi non sei riuscito a mantenere. Pagherai per aver avuto paura, lasciando ogni giorno della tua vita tutte le cose più preziose in un disordine deliberato, come i vestiti buttati sul divano prima di andare a dormire.

Per mettere chiarezza a questi che tu vorresti chiamare pensieri non bastano le centocinquantamila fotografie che alloggiano sul tuo hard disk, né le lettere scritte e ricevute, né ciò che percepisci come ricordi. Nel compiere un atto brutale come può essere quello di uccidere una persona hai intelligentemente evitato di scattare fotografie, tantomeno di parlare al telefono o di renderti conto di quello che stavi facendo. Eri in strada, era notte, o forse era di giorno, non importa, non ricordi.

Proprio nei momenti in cui non hai con te la tua preziosa macchina fotografica ti convinci che le immagini che ti passano davanti riuscirai a non perderle, magari potrai più tardi scrivere una serie di appunti con il titolo “oggi ho visto”. Per esempio quella volta nel bar insieme ad Andrea quando lui ha preso un amaro e tu il solito cappuccino e hai domandato alla barista se la pasta frolla della crostatina fosse ancora fragrante, oppure quegli anziani signori che parlavano ad alta voce delle vicende sportive della domenica.
Quella giornata senza macchina fotografica poteva infatti rivelarsi diversa proprio perché sarebbe stata attentamente descritta in un diario dal titolo “oggi ho visto”. Ma una volta a casa sei riuscito a riparare la macchina fotografica, l’hai aperta e con un sentimento simile alla tenerezza sei riuscito a riallineare i contatti che permettono l’apertura dell’obbiettivo. Dopo qualche settimana ricordi molto poco di quella giornata. Ti ricordi che ad un certo punto era arrivata la sera e che eri tornato a casa con Andrea e che avevi riparato la macchina fotografica e aspettavi che Simona tornasse per raccontarglielo.

C’erano stati certo molti giorni senza macchina fotografica prima che Simona te la regalasse. Le immagini nitide della gran parte di quei giorni sono custodite chissà dove, tu devi accontentarti di qualche momento qua e là, che vorresti ogni tanto mettere in ordine per fare chiarezza sul significato profondo della tua esistenza.
Certo la tua vita, come quella di molte altre persone che conosci, sfugge un po’ alle definizioni che tenti di dare, soprattutto da quella volta in cui ti sei reso conto che stavi pensando e che un momento come quello tutto sommato era una rarità.

I cortocircuiti di sensualità, ecco uno dei pochi concetti di cui vai fiero, perché ti sembra di aver colto qualcosa di buono, almeno per cominciare.
Essere sensuale, aldilà del banale rinvio ad argomenti che hanno a che fare con i genitali, ti sembra che si riferisca a quella nostra, nostra di esseri viventi, disposizione alla ricerca dell’altro, ricerca che compiamo costantemente con tutti i nostri sensi. Questo concedersi senza remore con tutti noi stessi è lo stato che senti di chiamare propriamente uno stato sensuale. Molto spesso non ce ne rendiamo conto, sono gli altri a rendersene conto, perché è come se cantassimo senza saperlo.
Ma la nostra sensualità provoca in noi inconsapevolmente una grande impazienza, come se il nostro richiamo dovesse ottenere immediatamente riscontro. Ecco allora che hai capito quanto ognuno di noi in ogni momento abbia bisogno di mettere a contatto i poli della propria sensualità, come a dire per rendersi conto di essere vivi, per riuscire ad ascoltare quella voce che non riusciamo a sentire e che gli altri troppo spesso ignorano. Questo ti sei detto spiega ad esempio la grande diffusione del tabacco, dell’atto del fumare. La sigaretta, questo piccolo e apparentemente insignificante oggetto, ha per molti di noi la funzione di azzerare temporaneamente la tensione della nostra sensualità, come se collegassimo i poli di una batteria. In questo modo semplice sentiamo il brivido di esistere proprio perché lasciamo che l’energia che costantemente emettiamo e di cui non abbiamo riscontro preciso in quel momento ritorni a noi e ci faccia sentire carichi proprio mentre ci stiamo scaricando.
Questo è propriamente un cortocircuito della sensualità, semplice come quando ci tocchiamo per provare piacere.

La mattina di solito uscivi di casa quando già cadeva l’ora dell’appuntamento o l’inizio dell’orario di lavoro. Era una cattiva abitudine alla quale credevi di non essere abituato. In quel momento di solito i pensieri, quelli che ora non consideri più propriamente pensieri, si azzuffano nella tua testa per avere la meglio ed essere quello che si fa notare di più anche perché spesso nell’ossessione di ripeterseli nella testa qualcuno rimane indietro e si finisce per dimenticarne il contenuto, ammesso che questo tipo di pensieri abbiano davvero un contenuto. Frasi come “devo prendere le chiavi del motorino, non ho ricaricato le batterie della macchina fotografica, dove ho lasciato il portafogli…” che ora non sono più annoverati tra i pensieri di cui riferiresti ad Andrea o ad altri amici. Questi cosiddetti pensieri spesso ti gettano in uno stato di profonda angoscia perché si riferiscono a piccoli contrattempi che quotidianamente indeboliscono i tuoi slanci, i buoni propositi che non smetti mai di dichiarare a te stesso. Un po’ come in quel film in cui il protagonista si sveglia sempre lo stesso giorno tu uscivi di casa sempre con un leggero ritardo e le ragioni erano quasi sempre da addebitare al portafogli dimenticato in un altro cappotto, le chiavi del motorino rimaste sotto una pila di carte tirate fuori per cercare il bollettino di conto corrente postale per pagare il telefono, situazioni contingenti che alle volte determinano gravi ritardi rispetto alla tua intima tabella di marcia.
2.
Per fare una stima approssimativa è già da qualche tempo che dici di avere perso dieci anni della tua vita. Quando lo dici di solito speri che qualcuno ti ricordi i bei momenti vissuti qua e là, oppure tangibili risultati ottenuti nelle varie discipline artistiche alle quali ha fatto la corte, oppure semplicemente che qualcuno ti ringalluzzisca ricordandoti delle tue innumerevoli doti e della tua vivida intelligenza, o almeno invocando la piacevolezza della tua personalità. Questo lo fa anche tuo padre, lo ha sempre fatto quando tu accennavi ad una autocritica. Magari ti diceva che eri un coglione ma trasmettendoti quel cieco ottimismo di chi ha il mondo ai suoi piedi. Spesso, in questi momenti di piacevole intimità familiare, ti domandavi se tuo padre difendeva le tue scelte soprattutto per non mettere in discussione le proprie.

E ora che il tempo ha smesso di scorrere lo puoi notare da piccoli particolari, il contenitore del latte riporta la scadenza a nove giorni fa ma il latte è ancora bevibile. Per quanto tempo ancora potrai mettere questo latte nel tuo caffè lungo? Anche questo non sempra essere un pensiero degno di tal nome, ma è una domanda che ti accompagna nelle prime ore di questo interminabile ventisei dicembre. E’ anche possibile che i ricordi di altre persone entrino nei nostri cosicchè non si sappia più davvero se il tempo stia passando o se solo stiamo uscendo da un ricordo ed entrando in un altro.

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01/12/2003 - 01/19/2003  

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